Cookie Consent by Free Privacy Policy website Slow Food Fish: Alla ricerca dell’acqua perduta, l’impatto degli inquinanti nei nostri mari
maggio 19, 2015 - Slow Food

Slow Food Fish: Alla ricerca dell’acqua perduta, l’impatto degli inquinanti nei nostri mari

«Ognuno di noi mangia 12 chili di sostanze chimiche ogni anno». Questa la denuncia del presidente del Comitato Pesce-al-mercurioscientifico di Slow Fish Silvio Greco, lanciata al Laboratorio dell’acqua La pesca avvelenata di Slow Fish, fino a domani al Porto Antico di Genova: un’occasione per discutere con biologi, ecologi e scienziati provenienti da tutto il mondo, analizzando lo stato degli inquinanti nelle nostre acque, il loro impatto sulle specie ittiche e capire se e quanto rischiamo quando mangiamo un bel piatto di pesce.

Tra le minacce principali ci sono i metalli pesanti, le sostanze chimiche, le plastiche e microplastiche, ma anche le sostanze mediche e quelle dedicate alla cura del corpo. Non tutti gli inquinanti comunque vengono dall’uomo, non direttamente almeno: ogni volta che si sviluppano grandi masse di alghe infatti si generano tossine potenzialmente pericolose. Ma siamo noi a favorire queste proliferazioni periodiche, “concimando” il mare con le sostanze che riversiamo irresponsabilmente.

L’impatto degli inquinanti è una frontiera abbastanza inesplorata, se si considera che le leggi nazionali e comunitarie riguardano solo un ristretto numero di sostanze. Questo perché, oltre a uno scarso monitoraggio, mancano anche le conoscenze degli effetti di elementi chimici su ambiente e creature viventi, incluso il fisico umano. Su questo interviene il progetto EcsafeSeafood, coordinato dall’Istituto portoghese di mare e atmosfera (IPMA) attraverso la voce di Antonio Marques: «Con questa iniziativa vogliamo da un lato verificare la percezione che la gente ha di rischi e benefici collegati al consumo del pesce in diversi paesi europei, dall’altro dimostrare che incentivare la ricerca è il primo passo di qualsiasi percorso positivo su questa materia».

I risultati raccolti finora, confermati dall’Associazione dei Medici per l’Ambiente (ISDE) rappresentata da Silvana Galassi, sono consolanti: per quanto riguarda le sostanze regolamentate, i pesci commercializzati contengono inquinanti in misura molto inferiore ai limiti di guardia, e il rapporto tra il rischio e i benefici di una dieta che includa il pesce è ancora tutto al positivo. Il livello di attenzione deve rimanere comunque alto: gli organismi che si trovano più in alto nella catena trofica, vale a dire i grandi predatori (soprattutto pesci spada e tonni) e gli esseri umani sono molto più a rischio; lo stesso si può dire dei pesci molto grassi. Le statistiche si capovolgono invece quando si guarda alle cosiddette specie dimenticate: molti pesci azzurri, in particolare le alici, sono i più ricchi di omega 3 e i meno colpiti dagli inquinanti.

Noi europei abbiamo la fortuna (e la responsabilità) di poter ancora cambiare le cose, invertire la rotta, nonostante le emergenze ambientali siano tante anche nel molto più piccolo e fragile ecosistema del mare nostrum: c’è chi è in situazioni molto più gravi della nostra, come testimonia l’intervento di Gary Granata, rappresentante di Slow Food Louisiana. Come se non bastassero i disastri naturali che hanno colpito questo Stato americano negli ultimi anni, il diffondersi delle trivelle petrolifere sia su mare che su terra (parliamo di circa 50mila unità) ha causato l’eradicazione quasi totale delle foreste di cipressi. Questo, oltre a cancellare per sempre un enorme ecosistema palustre, ha anche privato una regione già a rischio di un vero e proprio scudo in grado di assorbire la forza delle tempeste tropicali, molto frequenti nell’area.

Inoltre, se si osserva una cartina fisica degli Stati Uniti, è facile notare come la Louisiana sia il collo di un gigantesco imbuto che raccoglie la maggior parte dei corsi d’acqua del Paese: di conseguenza la maggior parte delle sostanze emesse da quello che è il primo Stato al mondo per consumo di petrolio e per emissioni di sostanze dannose per l’ambiente finisce sulle sue coste. Il risultato di questo inquinamento massiccio è stata la formazione di una deadzone, vale a dire una fascia di mare in cui l’ossigenazione è al di sotto dei livelli necessari alla maggior parte delle forme di vita.