Cookie Consent by Free Privacy Policy website Slow Food Fish: Che cos’è l’ocean grabbing?
maggio 15, 2015 - Slow Food

Slow Food Fish: Che cos’è l’ocean grabbing?

Che cos’è l’ocean grabbing?   Si potrebbe pensare che i mari siano, o debbano essere, risorse in comune: eppure si tratta di un bene sempre più a boat smallrischio. Assistiamo a un processo di privatizzazione degli oceani e del mercato ittico per ragioni che vanno dall’ecoturismo e dall’estrazione di materiale grezzo, fino alla pesca su larga scala. Questo fenomeno è noto come ocean grabbing. Spesso agevolato da politica, leggi e burocrazia, così come dal mercato, l’ocean grabbing influenza l’accesso alle risorse marine e al loro controllo, sottraendolo alle comunità costiere per metterlo nelle mani di grandi compagnie e multinazionali. Questo fenomeno toglie ai pescatori e alle comunità non solo un importante mezzo di sostentamento, ma anche l’unica fonte di proteine: in alcuni casi contribuisce persino alla distruzione dell’ecosistema marino locale. Una delle ragioni usate per giustificare questa privatizzazione è il tentativo di evitare la tragedia dei beni comuni, formula secondo cui le risorse comuni finiranno inevitabilmente con l’essere esaurite per profitto personale. Un’altra argomentazione è quella che si basa sull’idea che, per nutrire una popolazione in continua crescita, la produzione di cibo debba aumentare anche attraverso incentivi e politiche che favoriscano investimenti su larga scala. Eppure tutti questi ragionamenti fanno perdere di vista i successi di molte comunità e gruppi di pesca artigianale in tutto il mondo, resi possibili da apposite leggi e regolamentazioni, nella gestione collettiva delle proprie risorse, impedendo che il profitto si concentri nelle mani di singoli individui. Ma soprattutto fanno perdere di vista il fatto che più che un aumento nella produzione di cibo, quello che serve sopra ogni altra cosa a una popolazione in crescita è un accesso più ampio al cibo.   Come si sviluppa l’ocean grabbing?   È importante ricordare che sono gli Stati a regolamentare lo sfruttamento dei mari. A livello internazionale ci sono diverse iniziative che direttamente o meno hanno favorito la privatizzazione delle risorse ittiche comuni: La Quota Individuale Trasferibile (Itq): sempre più applicata, consente agli Stati di cedere i diritti di pesca in forma individuale, facendone un vero e proprio bene commerciabile. La Politica Comune della Pesca dell’Unione Europea: è stata creata per gestire le risorse ittiche introducendo quote e regolamenti per gli stati membri. Tuttavia, incredibilmente, non tutela i diritti dei pescatori artigianali. L’Associazione Globale per gli Oceani (Gpo) della Banca Mondiale, una struttura legale che facilita un approccio alla gestione delle aree di pesca basato sul mercato. Le Aree Marine Protette (MPAs), strumento di gestione e conservazione, sono viste come la soluzione ai problemi marini, ma spesso impediscono alla popolazione locale l’accesso al mare e alle sue risorse. Si tratta in genere di popolazioni povere ed emarginate, e spesso le loro attività tradizionali di sussistenza sono rimpiazzate da progetti di ecoturismo ad alto investimento.   Quali sono le conseguenze?   Innanzitutto le attività di flotte su larga scala significano spesso l’esproprio delle risorse che un tempo sostenevano le popolazioni locali e le attività di pesca tradizionali. Le piccole flotte artigianali diminuiscono di anno in anno e le quote di pesca sono concentrate nelle mani di pochi. In alcuni casi i pescatori vengono privati del diritto di pesca o di raccolta nell’area per via di una modifica alla legge, che colpisce il loro legame di fondamentale con le risorse marine.Queste politiche basate sul diritto sono spesso imposte senza la consulenza di nessun rappresentante delle comunità della pesca. In Sud Africa per esempio, l’adozione delle quote individuali trasferibili ha significato escludere dall’oggi al domani il 90% dei 50.000 pescatori artigianali del Paese. In Cile, 4 compagnie controllano il 90% delle quote di pesca, lasciando che il 68% della popolazione nazionale che lavora nella pesca a dividersi il rimanente 10%. E nonostante l’ocean grabbing sia generalmente concentrato nei Paesi in via di sviluppo, gli effetti della privatizzazione di risorse ittiche comuni stanno raggiungendo anche quelli più sviluppati.In Nuova Zelanda, più dell’80% dei diritti di pesca sono nelle mani di meno di una dozzina di compagnie, mentre le stime dicono che nella sola Europa a decine di migliaia di pescatori artigianali tali diritti non vengono riconosciuti.   Esiste una soluzione?   Sono molte le soluzioni sollecitate in risposta ai problemi del degrado ambientale, dell’instabilità economica e dello sviluppo sociale. Non esiste comunque una panacea: ogni contesto subisce una moltitudine di fattori, evidenziando il bisogno di un approccio di ampio respiro.Il Libro Verde della Commissione Europea, che prevede la riforma delle politiche sulle riserve ittiche comuni, ha stabilito che la sovrapproduzione ittica industriale è mantenuta artificialmente da pesanti supporti finanziari pubblici. Questo conduce a pessimi risultati economici, che a loro volta generano un circolo vizioso. Può succedere che ai governi manchi la capacità istituzionale di affrontare i problemi del mercato ittico e degli oceani, ma esiste un’alternativa alle politiche di privatizzazione. Al centro del dibattito devono esserci un sistema di democrazia dal basso sviluppato attraverso organizzazioni di rappresentanza e le comunità la cui sovranità alimentare dipende dalle risorse ittiche. Il sistema di amministrazione attuale considera le risorse acquatiche un bene commerciabile, ma non riesce a prendere in considerazione la dipendenza di milioni di comunità di pesca da queste risore. Se l’obiettivo è la sicurezza alimentare non solo per queste comunità, ma per chiunque abbia il pesce come fonte di proteine, è necessario sviluppare un approccio olistico basato sui diritti umani. I diritti di accesso dovrebbero essere collettivi invece che individuali, e l’amministrazione dovrebbe essere inclusiva, partecipativa e democratica. Un approccio basato sui diritti umani permetterebbe inoltre una maggiore partecipazione femminile nei processi decisionali: dopotutto la metà dei pescatori artigianali è donna. Questi principi trovano un’eco anche nelle recenti Linee Guida sulla pesca artigianale adottate nel 2014 dal Comitato della pesca della FAO. Tali linee guida rappresentano il primo strumento internazionale per la salvaguardia degli interessi dei pescatori artigianali, mentre un altro documento, Le linee guida di mandato, sottolinea la necessità di un accesso equo e sicuro alle risorse naturali e di conseguenza il diritto al cibo. Il lato negativo comunque è che sono essenzialmente volontarie, e molti pensano che lo scontro nasca dall’implementazione della legislazione.In più, Olivier de Schutter, Relatore speciale presso le Nazioni Unite sul diritto al cibo dal 2008 al 2014, ha invitato i governi a rivedere quale modello di pesca intendano adottare, sottolineando come i pescatori artigianali catturino più pesci (e ne scartino meno) per ogni gallone di benzina consumato.È evidente che stanziare diritti di pesca privati sulle risorse ittiche, in un modo che favorisce la speculazione e il consolidamento dell’industria, è naturalmente ingiusto sia nei confronti della collettività, che viene privata delle sue risorse, sia sulle comunità che perdono l’accesso alla risorsa stessa. Come se non bastasse, questa politica non migliora l’ambiente marino, né tantomeno la sicurezza alimentare o economica. Solo se riconsideriamo la mercificazione delle nostre risorse e cominciamo a considerare olisticamente gli impatti del sistema attuale possiamo raggiungere la stabilità ambientale, e un domani la prosperità economica e sociale.